alchimia_fotogenica

Immagino che per i pionieri della fotografia dovesse essere davvero qualcosa di magico veder comparire l’immagine dal nulla. Vedere materializzarsi il riflesso capovolto del mondo sul vetro opaco dei loro apparecchi.
Quella immagine trasportata da una materia immateriale (la luce), passata attraverso le spesse lenti dei loro strumenti (camera ottica), misteriosamente prendeva forma e appariva, seducente come un bel disegno tracciato con maestria dalla natura stessa.

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Quella che è considerata la prima fotografia, realizzata da Joseph Nicéphore Niépce nel 1827

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Un daguerrotipo realizzato da Daguerre nel 1837, tre anni prima dell’annuncio ufficiale della nuova invenzione all’Accademia di Francia dato da F. Arago

Hippolyte_Bayard_-_Drownedman_1840

Il povero Bayard si ritrasse come un suicida in seguito all’annuncio di Arago all’Accademia di Francia. Lo scienziato lo aveva messo nel sacco. Forse il procedimento di Bayard gli sembrava meno elegante di quello di Daguerre…

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Uno dei primi esperimenti di Talbot: si tratta di un rametto stampato a contatto su carta da lettere ai sali d’argento, fissata precariamente con una soluzione di sale da cucina. Come si può notare, si tratta di una immagine in “negativo”, cioè coi valori tonali invertiti.

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Il granaio fu uno dei primi “calotipi” (o “talbotipi”) realizzati da Tabot con la camera oscura. Le ombre e il forte contrasto evidenziano come la ripresa richiedesse la luce solare intensa. In questo caso si tratta di una stampa ottenuta per contatto da un negativo su carta, probabilmente cerata per aumentarne la trasparenza.

Eliotipia, disegno fotogenico, calotipo, sciadografia, dagherrotipo e finalmente fotografia…
Personalmente non penso che Niépce (Joseph Nicéphore Niépce, 1765-1833) possa essere considerato l’inventore propriamente della fotografia, sebbene sia stato uno dei primi a mettere insieme – per così dire – la camera oscura con i sali d’argento, nel tentativo di creare immagini direttamente con la luce, senza l’intervento di un disegno manuale. Nessuna di quelle immagini ai sali d’argento ci è pervenuta, forse per la mancanza di un metodo di “fissaggio”, ma probabilmente anche perché all’origine gli esiti che egli otteneva erano ancora molto lontani da quelli che saranno stati raggiunti in seguito da altri. Infatti, suscita perplessità che egli abbia abbandonato gli esperimenti con i sali d’argento per passare all’uso di altre materie fotosensibili, anche se, in una lettera al fratello Claude del 1816, egli parli persino di voler riprendere immagini a colori!
Tuttavia, l’abbandono dei sali d’argento lo condusse, in definitiva, sulla strada della “foto-incisione”, poiché la sua tecnica si prestava molto meglio alla riproduzione di soggetti statici e fortemente contrastati. Niépce, si servì di lastre di peltro coperte di bitume di giudea – una sostanza nota da tempo, che ha la proprietà di indurirsi alla luce. Le zone  esposte diventando insolubili, quelle non esposte potevano essere rimosse con olio di lavanda, lasciando sulla lastra dei forti chiaroscuri al tratto.
Un aspetto forse curioso della vicenda sta nel fatto che molti anni dopo, nel 1853, un nipote di Joseph Nicephore, Claude Félix Abel Niépce de Saint Victor (figlio di un cugino), realizzò delle matrici al bitume esposte per contatto sotto un negativo fotografico, producendo da esse una specie di foto-xilografie.
Tuttavia,  le prove condotte da Niépce a partire dal 1823 con l’impiego nella camera oscura con lastre al bitume non davano i risultati sperati. Il problema principale era dovuto alla lunghissima esposizione necessaria utilizzando lo spesso strato di bitume. Le molte ore di posa provocavano uno spostamento delle ombre che rendeva l’immagine molto confusa. Al contrario, uno strato sottile della materia fotosensibile essiccava si in un minor tempo, ma finiva per dissolversi con l’olio di lavanda, lasciando la copertura residua inutilizzabile nel processo di morsura nell’acido. I molti insuccessi convinsero Niépce ad accettare l’alleanza  con lo scenografo Louis Jacques Mandé Daguerre, che già da tempo utilizzava la camera oscura per i suoi diorama. Egli assicurava di avere apportato importanti modifiche all’apparecchio ottico per renderlo più efficiente ed efficace.


[Tra tutti gli aspetti della fotografia delle origini, la lunghezza della posa e, quindi, la poca rapidità dei materiali fotosensibili impiegati, è di certo quello che maggiormente la caratterizza. Lasciando da parte le metodiche, i materiali impiegati e gli esiti prodotti da Niépce e da Daguerre (che vennero superati nel giro di vent’anni), i maggiori sforzi dei ricercatori furono indirizzati principalmente a risolvere il problema di accorciare drasticamente i tempi di esposizione, in modo da rendere più versatile la tecnica fotografica ].


L’altro padre tradizionale della fotografia, l’inglese Henry Fox Talbot, nei suoi tentativi di ottenere impressioni direttamente dalla luce, utilizzò come mezzo dei fogli di carta da lettere imbevuti di un composto fotosensibile a base di nitrato d’argento e cloruro di sodio, dapprima esponendoli per contatto sotto foglie o merletti, per poi tentare la sorte con la camera oscura, riprendendo granai e assolate facciate di edifici.
Talbot aveva sperimentato varie soluzioni, ottenendo risultati interessanti a partire dal 1834, per approdare alla tecnica definitiva nel ’39-’40. Il procedimento negativo/positivo deve essere considerato un contributo determinante nella storia della fotografia e, più in generale, nella storia delle diffusione delle immagini, anche se questo non può giustificare l’arroganza di Fox-Talbot nel rivendicare l’esclusiva su qualunque altra tecnica e applicazione fotografica introdotta di li in avanti.
Grazie all’astronomo e chimico inglese John Herschel – dedito quasi per svago alla sperimentazione fotografica – che nel 1819 aveva scoperto le proprietà solventi del tiosolfato di sodio sui sali d’argento, le prove di Talbot potevano essere “fissate” e, finalmente, uscire dalla precaria penombra del laboratorio, visibili solo alla tenue luce di una candela. Quindi, grande fu il debito di Talbot – scienziato per diletto – nei confronti dello scienziato di professione. Fu proprio Herschel, tra l’altro, a indicare per primo il termine “fotografia” (dal greco φῶς-φωτός, luce; γραϕία, disegno) per la nuova scoperta, neologismo che infine avrebbe prevalso su tutti gli altri.
Nel frattempo, Luis-Mandé Daguerre – socio dello sfortunato Niépce morto nel 1833 -aveva messo a punto il suo procedimento – siamo nel ’37 – chiamandolo modestamente daguerréotype (dagherrotipo). L’annuncio della geniale invenzione venne fatto in forma solenne dallo scienziato François Arago all’Académie des Sciences di Francia, nel 1839.


Il procedimento era all’incirca il seguente: una lastra di rame, argentata superficialmente mediante l’elettrolisi, veniva esposta a vapori di iodio per renderla fotosensibile.
Veniva, quindi, esposta nella camera oscura per un tempo piuttosto lungo (15-30′); l’immagine che si veniva a formare, piuttosto evanescente,  era rinforzata con vapori di mercurio che, depositandovi un velo biancastro, la rendevano più evidente.
(Pare che Daguerre fosse arrivato a questa procedura quasi per caso, quando una lastra impressionata venne accidentalmente esposta ai vapori esalati dal mercurio contenuto in un recipiente).
Infine, la lastrina metallica doveva essere fissata (utilizzando il sale scoperto da Herschel), lavata e quindi lasciata asciugare. L’immagine autopositiva era visibile al meglio sotto un certo angolo visuale. Si trattava di esemplare unico ed era speculare (con la destra e la sinistra invertite), così che nella confezione vi si trovava uno  specchietto nel quale si poteva vedere raddrizzata.

Il fatto che il dagherrotipo generasse un originale autopositivo non era affatto considerato un limite. Era proprio questo il risultato per il quale i pionieri della fotografia lavorarono nei primi tempi. Il problema agli inizi – all’incirca tra il 1830 e il 1840 – era mettere a punto il metodo per realizzare immagini senza l’intervento manuale, senza le competenze necessarie nelle altre discipline artistiche e non di produrre più copie da una matrice, come avveniva per i sistemi di stampa ad inchiostro. Herschel fu il primo a sperimentare il procedimento negativo-positivo, anche se ad annerimento diretto*. Dopo l’esposizione era necessario solo il bagno di fissaggio per impedire che il processo di annerimento continuasse sino a cancellare l’immagine. Talbot aveva, nei suoi tentativi, ottenuto immagini che non si vedevano progredire man mano durante l’esposizione, ma solo dopo un ulteriore fase di lavorazione che consisteva in un bagno nella stessa soluzione che era servita a sensibilizzare la carta e quindi nel fissaggio in una soluzione di tiosolfato di sodio (detto anche iposolfito).


*L’annerimento diretto, senza il successivo “sviluppo” chimico, avviene quando la soluzione con la quale si sensibilizza (per immersione) la carta, è particolarmente satura di alogenuri d’argento. Se povera di alogenuri, la soluzione non produce un annerimento diretto (a parità di tempo di esposizione); se la carta esposta per la posa fotografica viene sottoposta ad un successivo bagno chimico, l’immagine, prima allo stato “latente” si forma completamente in pochi minuti.
Si dice latente, ossia non-visibile, l’impressione formatasi nel supporto sensibile (carta, pellicola o altro), prima dello sviluppo, che provvede a renderla “evidente”, cioè visibile.

Solo dopo molti anni dalla sua definitiva consacrazione come nuova tecnica di produzione delle immagini ci si rese conto che l’immagine con i valori tonali invertiti – il negativo – poteva utilmente essere riprodotto in molte copie più o meno identiche, costituendo un fototipo: la matrice nel processo di stampa fotografico.
I due padri della fotografia – Talbot e Daguerre – non si mostrarono né generosi né democratici, ma piuttosto dei buoni affaristi, brevettando entrambi i loro procedimenti tecnici. Talbot, pretese royalty sui guadagni di chiunque nel Regno Unito utilizzasse la sua tecnica (il cosiddetto calotipo). Ebbe persino l’impudenza di avanzare diritti sul metodo messo a punto da Frederick Scott Archer, inventore della fotografia su vetro e del procedimento al collodio umido, reso di pubblico dominio nel 1852, senza alcun vantaggio economico per lo sfortunato inventore, che morì prima di vederne il successo mondiale. Infatti, fu Scott Archer, con le sue ricerche a dare la spinta decisiva verso la fotografia moderna, risolvendo in parte il problema della lunghezza penosa delle pose calotipiche. Il collodio umido consentiva di minimizzare l’esposizione nell’ordine dei o pochi secondi. Nel giro di pochi anni, con la successiva tecnica alla gelatina bromuro-d’argento e il supporto in celluloide, la fotografia conquisterà la sognata dimensione di istantaneità, permettendo ai fotografi di fermare l’attimo fuggente, immortalando gli eventi nel suo svolgersi: Ma a quel punto siamo già alla fine del secolo XIX ed è già nata la “Settima Arte” da una costola della fotografia: il Cinematografo.
Vorrei ricordare lo sfortunato ed ingenuo Hippolyte Bayard che – negli stessi anni – aveva messo a punto un procedimento, un po complesso, ma i fondo un gioco da ragazzi confrontato col dagherrotipo, che aveva come quello il difetto di originare un positivo diretto su carta e, quindi, di produrre non una “matrice” da cui ricavare copie a volontà, ma immagini uniche.

(E’ ironico pensare che oggi, con la fotografia digitale, otteniamo positivi diretti e che questi sono l’esatto opposto di immagini uniche e irripetibili!)

Daguerre bruciò tutti sul tempo: Bayard, Talbot e soprattutto Herschel. Ma la sua invenzione si mostrò presto una sorta di vicolo cieco. Dopo pochi anni il calotipo negativo/positivo e la fotografia su vetro al collodio umido di Scott Archer, resero i dagherrotipi una elegante curiosità.
Fino agli ani ’80 dell’Ottocento, la fotografia si può identificare come l’età del collodio


Se un lingotto d’argento puro* (1000) viene posto in un contenitore di vetro contenente acido nitrico (un acido forte piuttosto pericoloso), si formano dei cristalli incolori (sono velenosi e molto caustici!) il nitrato d’argento, che opportunamente combinato con lo ioduro di potassio – KI – o il bromuro di potassio  – KBr – (oppure, con il sale da cucina = Cloruro di Sodio = NaCl), forma un alogenuro d’argento come AgI (= ioduro d’argento), o AgBr (= bromuro d’argento). Nel procedimento fotografico, i minutissimi sali d’argento sono dispersi in una emulsione* (per la quale si adopera una sostanza colloidale, come  il collodio usato da Scott Archer, l’albumina, o la gelatina animale), che funge da medium col supporto (vetro, celluloide o poliestere) e ne aumenta le proprietà fotosensibili. Il procedimento fotografico che dopo l’età del collodio si affermò definitivamente, fu proprio quello detto alla gelatina-bromuro d’argento.


*Se si utilizza la carta come supporto, i sali possono anche essere semplicemente posti in soluzione in acqua distillata e spennellati sulla superficie, come nel procedimento detto della “carta salata“, simile a quello calotipico di Fox-Talbot. In questo caso per sensibilizzare la carta si utilizza il Cloruro d’argento (AgCl) prodotto sotto forma di precipitato, dalla combinazione di cloruro di sodio (il sale da cucina) e nitrato d’argento. L’alogenuro formato è sciolto in soluzione d’acqua distillata con poche gocce di acido acetico o anche di acido gallico. Tuttavia, la sensibilità alla luce risulta piuttosto scarsa, richiedendo tempi di esposizione prolungati (nell’ordine dei minuti). 

*L’argento 1000 (999/1000) è attualmente in commercio sottoforma di fili e lastrine e viene utilizzato per fare alcune monete con tirature limitate, parti di cavetterie speciali, preparazioni di soluzioni chimiche.

La luce gioca un ruolo fondamentale nel processo di trasformazione che porta gli agolenuri d’argento (dal greco alogenos = generatore di sale) a formare l’immagine, ma da sola non basta. Infatti, i fotoni (i quanti di radiazione elettromagnetica visibile = luce) producono nei sali d’argento (AgI/AgBr) una modificazione per la quale, se posti a contatto con un agente chimico in grado di cedere loro un elettrone, vengono ridotti a metallo (Ag) in maniera proporzionale alla quantità di esposizione ricevuta. Questa trasformazione chimica è conosciuta come ossidoriduzione ed è prodotta dallo sviluppo fotografico.  L’agente rivelatore – come il metodo e l’idrochinone – è posto in una soluzione alcalina – con basi più o meno forti come l’idrossido di sodio, il carbonato di potassio o il sodio borato – che serve ad attivare il processo di sviluppo degli alogenuri d’argento esposti alla luce (gli annerimenti). Solitamente sono impiegate delle sostanze preservanti – come il sodio solfito – che rallentano l’ossidazione spontanea del rivelatore nella soluzione alcalina e ne conservano l’efficacia.


E’ utile aggiungere che, il procedimento basato sullo sviluppo chimico di una immagine latente formata da alogenuri d’argento in una emulsione fotosensibile (gelatina-sali d’argento), si è dimostrato di gran lunga quello più efficiente ed economico. In altri termini, quello descritto è solo uno dei procedimenti possibili, basato sul criterio di minimizzare l’impiego del metallo semi prezioso senza sacrificare per questo la qualità delle immagini.
Agli albori della fotografia, nei vari tentativi ed esperimenti si utilizzarono procedimenti nei quali la quantità di nitrato d’argento era molto massiccia rispetto a quella del sale (come il cloruro di potassio che veniva spesso impiegato). Questo comportava la comparsa dell’immagine senza bisogno dello sviluppo chimico. In tal caso si provvedeva ad uno sviluppo detto fisico, con una soluzione simile a quella adoperata per sensibilizzare la carta, a base di nitrato d’argento e acido gallico, che aveva la funzione di rinforzare l’immagine più che di formarla. Dopo lo sviluppo si provvedeva al fissaggio in tiosolfato di sodio, secondo la formula suggerita da John Herschel.

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