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Perché la rivoluzione digitale ha, o sembra avere, un potere di rottura così vasto e profondo allo stesso tempo?
La ragione sta nel fatto che essa investe quella sfera delle attività umane che chiamiamo comunicazione. La facoltà di comunicare non è una peculiarità esclusiva della nostra specie. Moltissime specie animali hanno sviluppato forme più o meno rudimentali di comunicazione. Ma solo nell’uomo tale facoltà si è evoluta ad un punto tale da modificare prima la stessa base biologica da cui scaturiva, il cervello, con l’acquisizione del linguaggio; e poi da svincolare l’evoluzione della specie dalla pura mutazione biologica, per affidarla al progresso culturale. Insomma l’uomo ed il suo ambiente sono quello che sono da alcune decine di migliaia di anni grazie al fatto di saper comunicare in modi complessi ed articolati. Tanto che oggi si parla di comunicazione o si adotta una metafora comunicativa per definire, spiegare o descrivere ogni sfera delle attività umane, ad ogni livello di descrizione: dalle interazioni cellulari fino alla diffusione delle notizie mediata dai grandi apparati della comunicazione di massa.

Tuttavia, questa grande attenzione rivolta alla comunicazione compare assi tardi nella storia culturale. Indubbiamente, alcuni aspetti e fenomeni della comunicazione umana, ed in particolare della comunicazione linguistica orale e scritta, hanno attirato l’attenzione di filosofi e scienziati sin dall’epoca greca. Platone, ad esempio, fece molte importanti osservazioni su temi come il linguaggio umano e la scrittura, come pure Aristotele, cui dobbiamo una teoria del significato (di come cioè le parole, il linguaggio riesce a designare le cose al di fuori del linguaggio) che ancora oggi viene sostanzialmente condivisa da una buona parte degli studiosi. E non dobbiamo dimenticare come anche la tradizione simbolica religiosa giudaica e cristiana assegni un valore enorme all’atto di comunicare “del” o “con il” divino (che nel cristianesimo si fa “Verbo”, parola).

Ma è solo a partire dalla metà di questo secolo che la comunicazione viene assunta come oggetto di studio autonomo, considerato come concetto in sé e per sé, o come fondamento di una teoria più vasta. Nasce così una serie di discipline che studiano la “comunicazione in quanto comunicazione”, o che a partire da una teoria generale della comunicazione ne studiano degli ambiti specifici. La teoria dell’informazione, ad esempio, fornisce gli strumenti matematici per misurare l’informazione che viene trasmessa, e studia le condizioni migliori per fare in modo che tale trasmissione abbia luogo (se ne è già accennato nella prima dispensa); la semiotica studia i fondamenti dei processi della comunicazione e la natura dei linguaggi; la mass mediologia studia i mezzi di comunicazione di massa, ed il loro rapporto con la sfera sociale e culturale; l’informatica (che in ambito anglosassone si chiama però computer science, scienza dei “calcolatori” e non dei “comunicatori”) studia i metodi e le tecniche di elaborazione automatica dell’informazione e della comunicazione; la linguistica (che ha origine più remote, ma si consolida e diffonde solo a inizio secolo) studia la facoltà del linguaggio verbale e la sua manifestazione nelle lingue naturali; la narratologia analizza quel settore particolare della comunicazione linguistica che è l’attività di raccontare e di comprendere storie. L’elenco potrebbe continuare, fino a comprendere buona parte dell’attuale panorama delle discipline umanistiche ufficialmente riconosciute, quelle insomma che vengono insegnate in qualche dipartimento universitario.

Non è difficile individuare le ragioni di questo interesse: nel corso di questo secolo, ed in particolare dalla sua seconda metà, i modi e le tecniche del comunicare subiscono uno sviluppo straordinario, sia dal punto di vista della loro intrinseca struttura ed organizzazione, sia – soprattutto – dal punto di vista della loro funzione nel contesto delle società avanzate. In soli cinquanta anni le relazioni sociali, i processi economici, la produzione e la diffusione della cultura, l’organizzazione e l’impiego del tempo di vita degli individui sono investite da questa “esplosione” della comunicazione. Lo studio dei fenomeni comunicativi diventa dunque una delle chiavi fondamentali per interpretare l’ambiente sociale e culturale in cui viviamo.

Torniamo così al nostro punto di partenza. Se la comunicazione ed i suoi apparati sono così importanti, dobbiamo presumere che ogni innovazione tecnologica in quella sfera possa riflettersi estesamente su tutta la realtà sociale. Nelle prossime dispense cercheremo di capire come ed in che misura questo si stia verificando con la rivoluzione digitale. Ma prima di affrontare tale percorso ci è sembrato utile approfondire termini e temi fondamentali che sono alla base della nostra analisi. Ecco perché nelle pagine che seguono cercheremo di fornire un quadro essenziale di cosa si intenda con comunicazione, linguaggio, codice, medium, mass media, per tornare in conclusione a riflettere sulla natura della rivoluzione digitale e sulla sua funzione nell’ambito del mutamento sociale complessivo cui stiamo assistendo in questi anni.


Il concetto di comunicazione

Comunicazione deriva dal latino communicationem, a sua volta deverbale di communicare, che sta per mettere in comune qualcosa, passare qualcosa da uno all’altro, e per estensione unire in comunità. C’è dunque nella radice latina un’idea di contatto materiale, di trasferimento fisico, insieme con quella di comunità di individui che condividono qualcosa.

Sebbene già in Cicerone si trovi il sintagma communicatio sermonis, inteso come conversazione (ciò che può essere messo in comune o trasferito non è solo un bene materiale ma anche un’entità immateriale, un pensiero o una conoscenza), per lungo tempo il senso dei termini “comunicazione” e “comunicare” è stato ancorato all’idea di contatto o trasferimento materiale. In epoca medievale prevale la prima accezione, che si lega alla ritualità cristiana della mensa eucaristica, durante la quale ogni fedele entra in contatto fisico con il corpo del Cristo. Con l’avvento dell’era moderna, “comunicazione” diviene quasi un sinonimo di “trasporto”: “vie di comunicazione”, “canali di comunicazione” per eccellenza sono le infrastrutture e gli apparati deputati al trasporto di beni e persone. Ancora oggi nel linguaggio corrente questo uso è molto diffuso.

Ma, soprattutto a partire dalla metà del novecento, il termine comunicazione è stato sempre più spesso adottato per designare quella particolare forma di trasporto immateriale ed astratto che è il trasferimento di informazione. Questa sedimentazione del significato di comunicazione coincide con la nascita e lo sviluppo di un insieme di discipline che hanno assunto come oggetto proprio tale tipo di fenomeni.

In particolare, un vero e proprio punto di svolta è costituito dall’opera di due importanti scienziati che abbiamo già conosciuto: Claude Shannon e Warren Weaver cui dobbiamo la prima formulazione di una Teoria matematica della comunicazione. Negli scritti che la espongono, pubblicati alla fine degli anni 40, viene fornita per la prima volta una definizione generale della comunicazione come trasferimento di informazioni mediante segnali da una fonte a un destinatario.

Figura 1 - Claude Shannon
Figura 1 – Claude Shannon

Naturalmente, per dare un senso compiuto a questa idea della comunicazione Shannon e Weaver dovevano anche definire in modo rigoroso la nozione di “informazione”, cosa che fecero formalizzando il concetto matematico di informazione come scelta ed individuando nel bit l’unità di misura delle quantità di informazione (come abbiamo visto nella prima dispensa).

Lo schema della comunicazione di Shannon e Weaver

La teoria matematica della comunicazione era mossa da esigenze tecniche molto precise: studiare dal punto di vista fisico-matematico le condizioni di migliore efficienza del trasferimento di segnali attraverso apparati tecnici di trasmissione. Non a caso il suo sviluppo è parallelo alla grande evoluzione delle telecomunicazioni. Ma l’influenza delle ricerche di Shannon e Weaver è andata ben al di là di questo ambito specialistico. Dobbiamo loro, infatti, oltre alla definizione di comunicazione che ancora oggi utilizziamo, anche l’elaborazione di uno schema generale dei processi comunicativi, che ha goduto di una fortuna vastissima negli anni seguenti.

Tale schema ha l’obiettivo di individuare sia la forma generale di ogni processo comunicativo, sia i fattori fondamentali che lo costituiscono, quegli elementi, cioè, che devono essere presenti ogni qual volta si verifichi un passaggio di informazione. La figura seguente lo riporta in una versione fedele all’originale di Shannon e Weaver:

Tabella 1 - Lo schema della comunicazione di Shannon e Weaver
Tabella 1 – Lo schema della comunicazione di Shannon e Weaver

La fonte è l’origine dell’informazione; essa genera (in qualche modo) un messaggio che un apparato trasmittente trasforma in segnali; i segnali a loro volta sono trasmessi mediante un canale fisico fino al ricettore che li converte nuovamente nel messaggio ricevuto dal destinatario. Elemento di ostacolo al buon fine del processo comunicativo è il rumore, cioè la presenza di disturbi lungo il canale che possono danneggiare i segnali (quali le interferenze elettriche o magnetiche che si possono generare lungo un cavo di trasmissione).

Cerchiamo di capire meglio come funzioni il modello applicandolo ad un caso pratico: il termostato. Si tratta, come saprete certamente, di un dispositivo che serve a regolare la temperatura dell’acqua di una caldaia, o dell’aria all’interno di un forno. L’informazione che ci interessa in questo caso è se la temperatura abbia raggiunto o no un livello T. La fonte di questa informazione è il contenitore dell’acqua o dell’aria, dotato di un sensore (un termometro, per la precisione). Il sensore è collegato ad un apparato trasmittente; quando il livello T viene raggiunto esso viene attivato ed invia il messaggio “temperatura T raggiunta” mediante un segnale che ha la forma di un impulso elettrico; l’impulso viaggia attraverso un filo di rame (il canale) fino al ricettore, al quale è collegato il destinatario del messaggio, un meccanismo di accensione e spegnimento del bruciatore, un interruttore. A questo punto si avvia un nuovo processo comunicativo in cui il destinatario originale diventa fonte di un messaggio che ordina al bruciatore (nuovo destinatario) di spegnersi. Un meccanismo di risposta come questo si chiamafeed-back, ed è alla base di tutti i sistemi omeostatici, quei sistemi, cioè, in grado di autoregolarsi.

Ma con poche difficoltà possiamo applicare il medesimo schema alla comunicazione linguistica. Come lo stesso Warren Weaver ha detto, quando parlo con un’altra persona il mio cervello è la fonte dell’informazione, l’apparato vocale il trasmettitore, le vibrazioni sonore il canale della comunicazione, l’orecchio del mio interlocutore il ricettore e il suo cervello il destinatario finale del messaggio.

Insomma, lo schema di Shannon e Weaver ci consente di cogliere e collocare in un quadro unitario i tratti essenziali di processi apparentemente diversissimi: dal funzionamento degli apparati omeostatici come il termostato, all’interazione tra macchina e uomo (ad esempio, un apparato di rilevamento meccanico posto sotto il controllo di un operatore umano), alla comunicazione tra due esseri umani (l’interazione linguistica). Ma soprattutto ci consente di considerare tutti questi processi di interazione come manifestazioni di quello stesso fenomeno primitivo che è la comunicazione, e dunque di giustificare una teoria generale della comunicazione.

Lo schema della comunicazione di Jakobson

Grazie alla sua generalità, lo schema di Shannon e Weaver ha avuto una enorme fortuna nelle varie discipline che a vario titolo si occupano di comunicazione. Tuttavia, la recezione di questo modello non è stata passiva. Infatti, in ragione della sua origine eminentemente “ingegneristica”, esso non permette di rappresentare esaurientemente i processi comunicativi in cui sono implicati dei soggetti umani.

Proprio al fine di rendere conto della complessità della comunicazione umana, ed in particolare della comunicazione linguistica, il famoso linguista Roman Jakobson, ha proposto una rielaborazione dello schema comunicativo che ha avuto un grande influenza in discipline come la linguistica strutturalista, la semiotica e la teoria della letteratura, ma che ha dato spunto anche a molti modelli adottati negli studi sulle comunicazioni di massa.

Figura 2 - Roman Jakobson
Figura 2 – Roman Jakobson

Non ci sono parole migliori per descrivere il modello della comunicazione di Jakobson di quelle dello stesso autore:

Il mittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto (il «referente», secondo un’altra terminologia abbastanza ambigua), contesto che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia verbale o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario (o in altri termini al codificatore e al decodificatore del messaggio); infine un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente ed il destinatario, che consenta loro di stabilire e mantenere la comunicazione. Questi diversi fattori insopprimibili della comunicazione verbale possono essere rappresentati schematicamente come segue:

 

contesto
messaggio

 

mittente

– – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – –

destinatario

 

contatto
codice

 

Tabella 2 – Lo schema della comunicazione di Jakobson

Come vediamo, in questo modello (oltre ad un cambio di terminologia) viene meno la distinzione tra fonte e trasmittente da un lato e ricettore e destinatario dall’altro, e scompaiono le nozioni di segnale e di rumore. In un certo senso possiamo dire che si tratta di un modello che coglie la comunicazione ad un livello di astrazione maggiore, facendo a meno di rendere conto degli eventuali apparati e dispositivi fisici che possono consentire, facilitare o disturbare il processo comunicativo.

D’altra parte Shannon e Weaver avevano l’obiettivo primario di descrivere gli apparati meccanici di comunicazione, e di studiare in che modo potessero essere formati i segnali al fine di ottimizzare l’efficienza della comunicazione e ridurre i danni provocati dal rumore. Jakobson invece vuole costruire un modello della comunicazione umana che ci permetta di capire come e perché siamo in grado di parlare su qualcosa e di comprendereciò che ci viene detto. Non a caso egli introduce esplicitamente due fattori che non comparivano nel modello precedente: il codice ed il contesto.

Il concetto di codice o linguaggio

Il concetto di codice rappresenta una delle nozioni chiave di ogni disciplina che si occupa dei processi comunicativi. Tuttavia, poiché la comunicazione viene studiata da vari punti di vista, il significato attribuito al termine codice non è sempre univoco; soprattutto tale termine non designa sempre lo stesso ambito di fenomeni.

Una definizione generale su cui si potrebbe convenire è la seguente: un «codice» è un insieme strutturato di segni e di regole che il mittente ed il destinatario devono condividere affinché il primo sia in grado di formulare messaggi ed il secondo di comprenderli. Da questo punto di vista la nozione di codice è coestensiva a quella di linguaggio. Sebbene questa sovrapposizione non sia accolta in tutte le tradizioni disciplinari, ai fini della nostra trattazione useremo i due termini come se fossero sinonimi. Tuttavia questa definizione non ci permette di fare molti passi in avanti nella comprensione del fenomeno “codice”. Un esempio ci può aiutare ad approfondire questa comprensione, ed anche a vedere come e perché si sono avute più accezioni della nozione di codice.

Prendiamo dunque uno degli esempi di processi comunicativi che abbiamo illustrato prima, il circuito del termostato. In questo caso i due componenti di un termostato possono scambiarsi solo due messaggi, ovvero gli stati del mondo di cui l’emittente può parlare e che il destinatario può capire sono solo due: «temperatura oltre il limite»/«temperatura sotto il limite». Per consentire lo scambio di questi messaggi, dunque, sono sufficienti due segni (ricordate la rappresentazione dello stato di un interruttore nella prima dispensa?: stipuliamo che il primo venga rappresentato fisicamente dal segnale “presenza di corrente”; il secondo potrà benissimo essere rappresentato non dalla presenza, bensì dalla assenza di segnale (ovvero dalla mancanza di corrente nel circuito).

Ora il nostro sistema termostatico può funzionare. Tuttavia, come sappiamo, il rumore potrebbe generare dei disturbi nel circuito, e soprattutto potrebbe favorire una errata comunicazione, convertendo un segnale nell’altro: ad esempio potrebbe generare il segnale “presenza di corrente” anche quando lo stato «temperatura oltre il limite» non si sia verificato. Per evitare tali situazioni di incertezza possiamo complicare il nostro sistema in questo modo: ogni messaggio è costituito da una sequenza di due segni, che per comodità designiamo «A» e «B», dove l’ordine dei due simboli è significativo. Ci ritroviamo così con quattro sequenze «AA» «AB» «BA» «BB». A questo punto stipuliamo la convenzione che solo la prima e l’ultima di tali sequenze siano latrici di informazioni rilevanti (che nel nostro caso sono solo due). Decidiamo infine che il segno «A» corrisponda ad un impulso di corrente di 5 volt, mentre il segno «B» corrisponda ad un impulso di 10 volt. La probabilità che per errore il messaggio «AA» della fonte arrivi come «BB» al destinatario è assai minore di quando avevamo solo messaggi della forma «A» o «B». Abbiamo introdotto nel nostro sistema ciò che si chiama ridondanza, cioè la eccedenza dei messaggi formulabili mediante il repertorio dei simboli rispetto ai messaggi effettivamente significativi.

Se riconsideriamo ciò che abbiamo fatto ci accorgiamo di aver definito le seguenti entità:

    1. una serie di nozioni sugli stati del mondo che possono essere il contenuto di ciascun atto comunicativo; chiamiamo questi elementi significati
    1. una serie di simboli astratti che possono essere connessi in modo convenzionale a significati; essi possono essere sottoposti a regole che ne governino la combinazione e la successione e che stabiliscano quali sequenze siano da considerare e quali siano da scartare; chiamiamo queste regole una sintassi
  1. una serie di eventi fisici dotati di caratteristiche distintive, che possono essere adoperati per rappresentare le unità astratte della serie (b)
  2. una regola che associa in modo sistematico le unità della serie (a) a quelle della serie (b), ed in seconda istanza le unità della serie (b) a quelle della serie (c)

Ebbene con il termine codice possiamo intendere, e di fatto autori diversi hanno di volta in volta inteso, ciascuna di questa entità. Tuttavia, soprattutto a partire dagli anni sessanta, ha prevalso come accezione di codice l’entità che abbiamo individuato al nostro punto (d) (la quale peraltro fa riferimento alle precedenti). Tale nozione di codice è stata elaborata nell’ambito di una disciplina specificamente dedicata allo studio dei codici e dei linguaggio intesi come sistemi di segni, la semiotica.

Possiamo dunque (seguendo il lavoro di un altro celebre linguista, Louis Hjemslev) riformulare in questo modo la nostra definizione: un codice semiotico è sistema di correlazioni tra due sottosistemi: uno costituisce il sistema delle unità significanti, le unità che si manifestano in un atto comunicativo, chiamato piano dell’espressione; l’altro il sistema delle unità significate, ovvero il piano del contenuto. A loro volta i due piani si dividono in forma esostanza. La forma dell’espressione, che chiamiamo sintassi, generalizzando il caso del linguaggio verbale, è la struttura che organizza e da forma alle unità significanti, fornendo un repertorio di tipi espressivi del codice, nonché le regole per la loro combinazione (se il codice è composto da segni discreti). La forma del contenuto invece definisce le unità semantiche e i loro rapporti, organizzando la conoscenza/rappresentazione del mondo in un sistema. Si noti che la correlazione che è alla base di un codice è una correlazione arbitraria: ovvero il rapporto tra significante e significato non è un rapporto di causa ed effetto.

Alla luce di questa definizione nella classe dei codici possiamo far rientrare un ambito di fenomeni molto vasto, che va dal semplice linguaggio del termostato, ai linguaggi di programmazione per computer, dal linguaggio della matematica al linguaggio verbale. Rientrano nella classe di codici anche le forme espressive che si basano su simboli visivi e sulle immagini, detti comunemente linguaggi iconici: un esempio molto banale è il linguaggio dei cartelli stradali. Ma anche la pittura, la fotografia, il cinema o la televisione possono per certi versi essere considerati alla stregua di codici. Essi infatti hanno un loro insieme di unità espressive e una loro sintassi specifica (ad esempio l’inquadratura e il montaggio) anche se non presentano tutte le caratteristiche dei linguaggi simbolici astratti, i cui rappresentanti per eccellenza sono le lingue naturali.

Ciascun codice si differenzia da un altro sia per il tipo di unità espressive adottate, sia per la complessità della correlazione tra significante e significato, sia per il modo in cui sono articolati i significati. E proprio la differenza nella complessità e ricchezza del codice ci consente di discriminare tra il funzionamento di un termostato e il colloquio tra due amici. L’interazione verbale, ed in generale ogni processo di comunicazione che veda coinvolti in ultima analisi esseri umani, si rivela infatti un fenomeno assai più complesso della interazione tra apparati automatici.

I due componenti di un termostato possono scambiarsi solo due messaggi: «temperatura oltre il limite»/«temperatura sotto il limite». Per motivi di sicurezza, sappiamo, potremmo anche complicare questo codice. Tuttavia, per quanto complicato possa essere il codice proposto (potremmo aumentare il numero di simboli, individuare regole di accoppiamento degli stessi, in definitiva costruire una intera grammatica), esso dovrà sempre rispondere ai seguenti vincoli:

    • ad ogni simbolo corrisponde uno e un solo significato
  • un simbolo veicola lo stesso significato in qualsiasi situazione e contesto
  • una volta definito il codice esso non può esser cambiato dagli agenti che lo utilizzano

Se invece ci rivolgiamo a considerare la comunicazione verbale tra esseri umani, ci rendiamo immediatamente conto che la lingua ci consente di scambiare un numero infinito di significati, che ogni singolo messaggio linguistico veicola molteplici significati e che soprattutto in una interazione linguistica il processo di decodifica non è mai un confronto meccanico tra segnali ricevuti e un codice astratto ma un processo di interpretazione in cui giocano un ruolo enorme il contesto, le disposizioni emotive e le conoscenze del destinatario.

Dal contesto all’interpretazione

Il contesto è il secondo aspetto della comunicazione linguistica su cui Jakobson attira la nostra attenzione. Per comunicare infatti non basta avere in comune un codice. Ed in ogni caso, nella comunicazione linguistica questa comunanza non è mai perfetta, come avviene per i codici più semplici. Infatti, quando parliamo effettivamente con qualcuno parliamo di qualche cosa, in una data situazione e in un dato momento temporale. Affinché si dia comunicazione è necessario che tutti questi elementi di contesto siano condivisi, o, se non lo sono, che almeno siano condivisibili mediante la lingua.

Vediamo di spiegarci meglio con un esempio. Se incontro il mio amico Bruno, e gli dico «Ehi, hai visto che grande Roma ieri» (i tifosi di altre squadre ci perdoneranno) affinché egli capisca il senso della mia frase non basta che conosca bene l’italiano. Deve anche sapere che «Roma» si riferisce alla squadra di calcio e non alla città; deve in altre parole afferrare in qualche modo l'”oggetto” del mondo di cui io sto parlando.

Come questo afferrare il mondo mediante le parole avvenga è un problema su cui i filosofi si interrogano da secoli. Non possiamo in questa dispensa, che ha tutt’altro obiettivo, soffermarci su tale dibattito. Piuttosto ci preme mettere in evidenza come la comprensione di un messaggio, anche banale, sia un processo di enorme complessità. Infatti al mio amico non basta capire le parole che gli ho rivolto e collegare i termini individuali ad oggetti reali. Per comprendere realmente il mio messaggio egli deve possedere una serie di conoscenze di sfondo, una sorta di contesto cognitivo, composto dalle seguenti nozioni: sapere che ieri si è giocata una partita di calcio, che cosa è il calcio, che è in corso un torneo sportivo nazionale di calcio, che io sono tifoso di una certa squadra, e così via. Nel momento in cui io mi rivolgo a lui con quella frase presuppongo che possieda in qualche modo queste conoscenze. Se mi accorgo che la mia presupposizione è errata, allora devo esser in grado di spiegargli, mediante la lingua (o eventualmente con l’ausilio di messaggi visivi e filmati) almeno una parte di queste conoscenze dicontesto, altrimenti non riusciremo a capirci. Ci possiamo facilmente rendere conto che una perfetta coincidenza di competenze tra due persone è impossibile. Infatti tali nozioni sono il frutto della storia personale e sociale di ciascuno.

Ma anche ammesso che ci sia un sufficiente accordo di competenze tra due interlocutori, il senso complessivo di un messaggio per un destinatario non sarebbe comunque determinato solo da tale accordo. Se ad esempio il mio amico Bruno è un tifoso della Lazio, il significato immediato, letterale, della frase diventa a sua volta veicolo di un senso più ricco, in cui entra in gioco l’ironia e lo scherno verso il nostro interlocutore. Ciò non succederebbe se io stessi parlando con un altro amico il quale, pur condividendo le conoscenze di contesto, fosse tifoso di un’altra squadra, o non lo fosse di alcuna. Ma lo stesso amico Bruno potrebbe valutare diversamente il mio messaggio se fosse appena reduce da una interrogazione dagli esiti non brillanti, o da un bisticcio con la fidanzata.

Ecco che la comunicazione linguistica, ed in generale ogni processo di comunicazione tra esseri intelligenti mediata da un codice di sufficiente complessità (si pensi alla pittura, o al cinema), non presenta mai una perfetta simmetria tra codifica e decodifica. La decodifica richiede sempre un lavoro di interpretazione, effettuata dal o dai destinatari alla luce di un insieme di competenze e di circostanze. Naturalmente questa decodifica interpretativa non è sempre di pari complessità. Ci sono dei messaggi che interpretiamo tutti in modo largamente simile e con sufficiente velocità (se così non fosse, d’altronde, il linguaggio non sarebbe stato quel formidabile strumento di sopravvivenza in un ambiente ostile che si è rivelato essere per la nostra specie, fisicamente debole ed impacciata). Ed anche nel caso di messaggi più complessi esiste in principio la possibilità di ricostruire un significato comune e condiviso. Ma questo spazio comune può sempre essere il punto di partenza di un percorso interpretativo irriducibilmente individuale.


Media e tecnologie della comunicazione

Fino ad ora abbiamo parlato di comunicazione in modo astratto. Ma un processo di comunicazione reale non è solo un astratto trasferimento di informazioni codificate. I veicoli sui cui viaggia l’informazione, i segnali, sono entità fisiche: possono essere corpi fisici, o flussi di energia, come vibrazioni sonore, correnti elettriche, radiazioni elettromagnetiche. Per trasmettere e ricevere informazione sono dunque necessari degli apparati fisici, in grado di produrre energia o oggetti, di trasferirli e riceverli, attraverso un canale, e percepirli mediante dei recettori.

L’evoluzione ha dotato il nostro organismo di alcuni apparati naturali di trasmissione e ricezione: l’apparato vocale è un esempio dei primi, così come la capacità di movimento di alcuni arti, che ci consentono di gesticolare; l’apparato uditivo e quello visivo sono esempi dei secondi. Tuttavia questi apparati naturali hanno molti limiti. In primo luogo non ci permettono di comunicare a grandi distanze. La voce, ad esempio, riesce a “viaggiare”, conservando la sua capacità di veicolare informazione, per poche decine di metri. E i nostri occhi possono percepire solo le radiazioni dello spettro visivo che giungono loro in linea retta. Inoltre i nostri apparati di comunicazione naturale non ci permettono di conservare l’informazione in modo stabile nel tempo.

Per aumentare la sua capacità di comunicare e di conservare l’informazione nel tempo e nello spazio, dunque, l’uomo è stato costretto ad estendere le potenzialità dei suoi apparati naturali mediante degli apparati artificiali di comunicazione. Questi apparati sono le tecnologie della comunicazione.

Marshall McLuhan e il concetto di medium

Dobbiamo allo studioso canadese Marshall McLuhan l’idea che lo studio della comunicazione umana non possa prescindere da una analisi delle tecnologie della comunicazione.

Figura 3 - Marshall McLuhan
Figura 3 – Marshall McLuhan

Nei suoi molti libri e saggi, scritti a partire dagli anni 60, McLuhan ha proposto una analisi innovativa ed affascinante di numerosi strumenti della comunicazione, dalla scrittura fino alla televisione ed ai computer (anche se purtroppo è scomparso prima della nascita e della diffusione del personal computer, che è stato il primo vero propulsore della rivoluzione digitale). Per designare tali strumenti egli ha utilizzato il termine media (in latinomedium significa mezzo), che è divenuto uno dei termini chiave nelle scienze della comunicazione.

L’opera di McLuhan non ha mai assunto uno stile accademico e sistematico, ed anzi è caratterizzata da molti slogan ed affermazioni provocatorie. Questo stile, come egli stesso disse, gli permetteva di farsi capire da un pubblico vasto, e non solo da una ristretta cerchia di specialisti. Tuttavia da questa asistematicità sono conseguiti numerosi fraintendimenti ed incomprensioni, ed il suo pensiero è stato oggetto di vere e proprie guerre ideologiche tra entusiasti sostenitori e critici radicali.

Uno dei punti su cui la controversia si è maggiormente soffermata riguarda proprio il concetto di medium. Egli, infatti, non ne ha mai dato una definizione rigorosa, limitandosi a scrivere che un medium è “qualsiasi tecnologia che crei estensioni del corpo e dei sensi, dall’abbigliamento al calcolatore”. In questo modo fu portato a riunire in una sola categoria fenomeni che ricadono nella sfera dei codici, come il linguaggio verbale e le scrittura, tecnologie che faremmo rientrare tra i canali della comunicazione, come la stampa, l’elettricità ed il telefono, o altri che diremmo piuttosto messaggi, come gli abiti, o i quadri. E non solo: per McLuhan anche il treno, le autostrade, l’automazione nelle fabbriche erano dei media.

Ancora più controversa è stata la sua celebre affermazione “il medium è il messaggio”. Molti hanno interpretato questo aforisma nel senso che nella comunicazione ciò che conta non è il contenuto, quello che si vuole comunicare, ma il mezzo strumentale utilizzato per comunicare. E dunque, se ne potrebbe dedurre, il contenuto è ininfluente. Se si tiene conto che questa affermazione cadeva proprio nel mezzo della polemica scatenatasi negli anni 60 sulla funzione dei mezzi di comunicazione di massa (e soprattutto della televisione) nei processi di massificazione culturale, ci si può rendere conto della sua carica provocatoria, e della conseguente reazione di gran parte degli intellettuali tradizionali.

In realtà, ad una lettura più attenta, e fatta a distanza di alcuni decenni, ci accorgiamo che dietro alle riflessioni di McLuhan ci sono delle intuizioni importanti e per molti versi straordinariamente anticipatorie. In primo luogo, pur se in mezzo a molte oscillazioni ed oggettive contraddizioni, il concetto di medium che egli cercava di elaborare non coincide con quello di apparato tecnico di comunicazione in senso ingegneristico (peraltro McLuhan era professore di letteratura inglese). Piuttosto egli usava il termine per indicare il complesso sistema costituito da un apparato tecnologico, dalle relazioni tra tale apparato e i processi percettivi e cognitivi dell’uomo, dal rapporto tra apparato e linguaggi della comunicazione, dalla funzione che tale sistema assume nel contesto delle relazioni sociali. Talvolta uno di questi aspetti veniva accentuato in una singola trattazione o affermazione, ma una visione di insieme ci restituisce questa idea complessa ed assai produttiva del concetto di medium.

A partire da questa idea relazionale dei media, possiamo anche reinterpretare la provocatoria affermazione che il medium è il messaggio: nel momento in cui la comunicazione viene mediata da un apparato strumentale artificiale, qualsiasi esso sia, le caratteristiche tecniche di tale apparato agiscono sulla percezione del messaggio stesso, definendo il campo di possibilità entro cui possono svilupparsi sia la forma sia i contenuti della comunicazione. E poiché la comunicazione è il fondamento su cui si basano sia il pensiero e la conoscenza individuale, sia quella forma di pensiero e conoscenza collettiva che chiamiamo cultura, ne consegue che la natura degli strumenti del comunicare diventa un fattore di trasformazione del pensiero, della cultura e dunque della società (torneremo su questi temi nella prossima dispensa, parlando del futuro della “cultura del libro“). Ma per McLuhan questa consapevolezza non ha mai significato l’adesione ad una visione deterministica dell’influenza delle tecnologie sulla società (su questo torneremo nell’ultimo capitolo). Anzi, egli stesso ha scritto che era suo intento fondare un modo nuovo di studiare la comunicazione e gli strumenti della comunicazione per capire come l’uomo potesse utilizzarli attivamente al fine di sviluppare e migliorare la società.

Le caratteristiche comunicative dei media

I media, come abbiamo visto, sono un fenomeno comunicativo molto complesso, in cui si intersecano una serie di livelli e di rapporti. Senza dubbio l’aspetto tecnologico ha un ruolo centrale nella definizione della loro natura e delle loro caratteristiche. Siamo chiaramente in grado di differenziare da questo punto di vista apparati tecnici tra loro diversi come il libro a stampa, la radio, il telefono, la televisione e le reti di computer. Tuttavia, una semplice analisi tecnologica dei diversi media non riuscirebbe a dare conto del ruolo e della funzione di ciascuno di essi nell’ambito della comunicazione individuale e sociale. Se vogliamo studiare il funzionamento e le caratteristiche di un medium da questo punto di vista più complesso, dobbiamo infatti esaminare il suo rapporto con i vari fattori della comunicazione: linguaggi, contenuti, modalità di emissione e di fruizione.

Questa prospettiva da una parte ci fornisce le chiavi per una classificazione dei media, tema su cui si sono misurati moltissimi studiosi della comunicazione, e dall’altra di permette di capire come ed in che senso sia possibile parlare di nuovi media. Su questo tema ci concentreremo nella prossima dispensa. Per il momento invece vogliamo approfondire alcuni aspetti della relazione tra medium ed elementi della comunicazione che riteniamo particolarmente interessanti e, soprattutto, propedeutici per la nostra esplorazione nell’universo delle nuove tecnologie.

Il primo aspetto che andiamo ad investigare è il rapporto tra un medium ed il linguaggio (o i linguaggi) che esso veicola. Da questo punto di vista potremmo distinguere due classi di media: media monocodice e mediapluricodice.

I media monocodice sono quei media che veicolano messaggi codificati in un solo codice primario. Adottiamo il termine “codice primario” perché a rigore non esistono media che sono assolutamente monocodice. Ad esempio il libro è sicuramente un medium la cui comunicazione è basata in primo luogo sul linguaggio verbale scritto. Tuttavia nella comunicazione mediata dal libro si trovano ad agire più codici, che funzionano in modi più o meno espliciti. Un esempio autoevidente è l’uso delle illustrazioni e delle figure che possono corredare il testo in molti libri. Ma non si deve dimenticare che anche la forma della pagine e degli elementi che la compongono, la disposizione dei caratteri, il tipo di fonti tipografiche, è regolata da codici e stili grafici. Essi agiscono prevalentemente a livello inconsapevole, e contribuiscono attivamente ad orientare la lettura, focalizzando l’attenzione del lettore, indirizzando il flusso di lettura, scandendo le divisioni strutturali del testo, facilitando il reperimento di particolari porzioni del testo. In questo senso, i cambiamenti nella natura del libro introdotti dai cosiddetti “libri elettronici” (ne parleremo in dettaglio nella prossima dispensa) non incidono dunque solo sulla forma, ma anche sul contenuto stesso della comunicazione scritta.

I media pluricodice, sono quei media che, in virtù delle loro caratteristiche tecniche, hanno la capacità di veicolare messaggi prodotti mediante linguaggi diversi. Ma come nella prima tipologia la univocità nascondeva una certa molteplicità, qui la molteplicità tende a generare una nuova univocità. Infatti la compresenza di codici diversi in un messaggio non è mai il prodotto di una pura e semplice giustapposizione, bensì dell’attività regolatrice di un nuovo linguaggio, una sorta di iper-linguaggio. Si pensi ad esempio al cinema, dove agiscono insieme il testo, il linguaggio del corpo e dei gesti, le immagini, la musica, ma tutti contribuiscono a costruire un codice cinematografico dotato di suoi caratteri specifici che sono, ad esempio, differenti da quelli della televisione.

Il rapporto tra media e linguaggio, infatti, non è mai estrinseco e strumentale. Al contrario ogni medium ha la tendenza a generare un linguaggio comunicativo suo proprio, o a modificare profondamente le caratteristiche dei linguaggi che, prima della sua comparsa, erano veicolati da media differenti. Questo processo può richiedere un tempo più o meno lungo. In una prima fase infatti ogni nuovo medium comunicativo cerca di utilizzare i linguaggi e i modelli comunicativi delle tecnologie che lo precedevano. Ma successivamente le caratteristiche tecniche del nuovo strumento influenzano tale linguaggio, fino a modificarlo profondamente o a produrne uno nuovo.

Un altro aspetto che caratterizza i diversi media riguarda il verso del rapporto comunicativo, e la relazione quantitativa tra mittente e destinatario/i che ciascun medium istituisce o privilegia. Da questo punto di vista possiamo distinguere tre modelli comunicativi: media verticali unidirezionali, media orizzontali bidirezionali, media reticolari circolari. Si tratta di una distinzione sulla quale torneremo, ma che è opportuno introdurre anche in questa sede per il prosieguo del nostro discorso.

Nei media verticali o unidirezionali il mittente è unico mentre i destinatari sono molti, e non esiste di norma la possibilità di inversione del ruolo. Il processo comunicativo dunque avviene sempre nella medesima direzione: l’unico mittente produce il messaggio, i molti destinatari non possono fare altro che riceverlo e decodificarlo. Come vedremo, questo tipo di rapporto comunicativo caratterizza quella classe di apparati della comunicazione che vengono definiti mass media: televisione, radio, stampa quotidiana e periodica, ma in parte anche il cinema ed il libro.

Figura 4 - Il modello della comunicazione verticale
Figura 4 – Il modello della comunicazione verticale

Nei media orizzontali esiste una pluralità di mittenti e destinatari che possono scambiarsi i ruoli. Ogni singolo processo comunicativo è bidirezionale, ed assume la forma del dialogo. In questo caso infatti entrambi i protagonisti dell’interazione comunicativa possono divenire mittenti e dunque possono produrre messaggi. Tipico esempio di medium che si basa sulla comunicazione orizzontale è il telefono, ma a questa classe appartiene quella particolare forma di comunicazione verbale scritta che è la comunicazione epistolare.

Figura 5 - Il modello della comunicazione orizzontale
Figura 5 – Il modello della comunicazione orizzontale

I media reticolari, infine, sono una evoluzione di quelli orizzontali. Anche in questo caso esistono molti emittenti e molti destinatari, che possono scambiarsi di ruolo. Ma ciascun agente comunicativo è in grado di comunicare con molti altri. Nella comunicazione reticolare si realizza pertanto una interazione collettiva. Un medium che incarna questo tipo di interazione è la rete telematica Internet, almeno nella forma che essa ha avuto fino ad ora.

Figura 6 - Modello della comunicazione circolare
Figura 6 – Modello della comunicazione circolare

Mass media e televisione

Tra tutti i media, quelli che hanno assunto un ruolo preponderante nella comunicazione sociale contemporanea sono i cosiddetti mass media, o mezzi di comunicazione di massa.

Come abbiamo visto, una delle caratteristiche principali di questa tipo di media è l’adozione di un modello di comunicazione verticale ed unidirezionale. Questo modello è fondato su una forte asimmetria tra l’unico mittente e i molti destinatari, che non possono in alcun modo interagire o ribattere. Ma nella definizione di mass media convergono anche altri aspetti: in primo luogo i destinatari sono considerati come una massa indifferenziata e passiva; in secondo luogo, i contenuti della comunicazione tendono ad assumere un livello qualitativo uniforme e livellato verso il basso; infine, poiché il rapporto comunicativo è asimmetrico ed unidirezionale, i mass media possono svolgere la funzione di apparati di persuasione di massa e, conseguentemente, divenire strumento della propaganda politica e della persuasione commerciale, la pubblicità.

Tra i mezzi di comunicazione di massa, la televisione è senza dubbio quello che ha avuto a un tempo la più profonda ed estesa influenza sulla società e sulla cultura contemporanea, assurgendo a prototipo per eccellenza dei mass media e dei loro presunti effetti negativi. Le cause di questa profonda influenza sono complesse. Accanto alla natura asimmetrica della comunicazione, che abbiamo già rilevato, un ruolo importante viene giocato dalle caratteristiche semiotiche del messaggio televisivo. Infatti la televisione è un sistema di comunicazione assai complesso, in cui interagiscono immagini in movimento, parola, e spesso musica. Il messaggio televisivo dunque impegna fortemente le facoltà ricettive, i sensi, dello spettatore, la cui attenzione viene fortemente assorbita. Sappiamo, per esperienza personale, che è difficile fare altre cose mentre si guarda un televisore, ciò che non avviene se si ascolta la radio.

Una ulteriore caratteristica della comunicazione televisiva è l’effetto realtà che le immagini da essa proposte producono negli spettatori: ciò che vediamo sul video ci appare ingannevolmente come una immagine reale del mondo, un po’ come se stessimo guardando attraverso una finestra. Al contrario l’immagine televisiva è il prodotto di numerose mediazioni, messe in scena, scelte di tempi e sequenze, anche quando la ripresa è in diretta. Il messaggio televisivo, insomma, nasconde la sua natura di messaggio, per presentarsi come specchio della realtà.

L’insieme delle caratteristiche della comunicazione televisiva tende a limitare il ruolo attivo degli spettatori nella ricezione, e conferisce al messaggio televisivo una forte carica persuasiva. A tale risultato, d’altra parte, concorrono anche i contenuti della comunicazione. La televisione, infatti, propone al pubblico messaggi omogenei, sempre meno attenti alle differenze di gusto e sempre più inclini ad evitare livelli alti di argomentazione. Essa diviene, pertanto, il veicolo preferenziale della cosiddetta cultura di massa.

Per queste ragioni, la televisione ed in generale tutti i mass media sono stati considerati da moltissimi intellettuali uno degli strumenti di controllo sociale più efficienti nelle mani delle classi dirigenti per mantenere lo status quo, e una delle principali cause della massificazione culturale. La polemica degli “apocalittici” (così furono definiti da Umberto Eco in un famoso libro dal titolo Apocalittici e Integrati) verso i mass media ha raggiunto il suo apice negli anni 60, sulle onde della teoria critica elaborata dal gruppo di intellettuali e filosofi della Scuola di Francoforte: Theodor Adorno, Max Horkheimer e Herbert Marcuse.

Ma il dibattito è proseguito fino ai nostri giorni con critiche, in parte diverse, alla “cattiva maestra televisione” provenienti da filosofi come Karl Popper, formatosi in una tradizione culturale del tutto lontana se non avversa a quella dei “francofortesi” .

Figura 7 - Theodor Adorno
Figura 7 – Theodor Adorno

Oggi possiamo assumere una posizione forse più equilibrata. Sebbene sia innegabile che i mass media abbiano assunto storicamente un ruolo di controllo o di diffusione di modelli massificanti (basti pensare alla funzione propagandistica della radio negli stati totalitari, o all’importanza delle televisione nella diffusione dei comportamenti “consumistici”), non bisogna dimenticare che la comunicazione non è un processo puramente meccanicistico. La decodifica di un messaggio, come abbiamo visto, è un processo attivo, in cui intervengono le conoscenze e le attese del destinatario. È insomma possibile una “decodifica aberrante” rispetto alle intenzioni dell’emittente, che cambia il senso dei messaggi.

Un esempio molto illuminante di questa inversione di senso a cui possono essere sottoposti i messaggi della comunicazione di massa si è verificata proprio nel paese che più di ogni altro ha sviluppato il sistema dei mass media, gli Stati Uniti, durante la guerra del Vietnam: furono proprio le immagini provenienti dai corrispondenti trasmesse dalla televisione che fecero prendere coscienza ad una vasta parte del popolo americano della assurdità e della atrocità di quel conflitto, contribuendo così alla formazione di uno fra i più importanti ed incisivi movimenti di opposizione di massa in un paese occidentale dal dopoguerra.

Il futuro della comunicazione televisiva

Al livellamento ed alla omogeneizzazione della comunicazione televisiva, sia sul piano delle forme sia su quello dei contenuti, contribuiscono notevolmente anche considerazioni economiche. Quasi ovunque, infatti, la televisione, oltre ad essere un mass medium è anche una industria che deve produrre spettatori per venderli alla agenzie pubblicitarie.

Tanto più facile è comprensibile è il livello contenutistico del messaggio, quanti più spettatori si possono catturare nelle rete. Il pubblico televisivo, infatti, creato dalla stessa televisione, è in maggioranza educato a decodificare messaggi di scarsa complessità e tematicamente non controversi. Per questo il modello televisivo dominante è quello della televisione generalista, in cui i palinsesti sono caratterizzati da una programmazione di basso livello culturale e di estrema facilità formale, specialmente negli orari di massima audience.

Occorre fare attenzione nel dare giudizi completamente negativi di questa situazione. La cultura di massa, infatti, nasce come prodotto di una società avanzata, in cui la gran parte dei cittadini si ritrova a partecipare, in parità di diritti, alla vita pubblica, ai consumi e dunque anche alla fruizione delle comunicazioni. È comunque un fatto che due fattori sembrano convergere ad un superamento di questo modello di comunicazione televisiva, che domina da ormai 50 anni.

Da una parte le nuove tecnologie di trasmissione come i cavi ed i satelliti, permettono di moltiplicare i canali di trasmissione disponibile e soprattutto abbattono i costi di accesso alla comunicazione radiotelevisiva via etere. Dall’altra i gusti del pubblico, che nelle società avanzate gode di livelli di scolarità e di cultura sempre più alti, sembrano essere mutati, mostrando segni di stanchezza nei confronti della TV generalista (in cui la programmazione sempre più spesso è insostenibilmente vuota e volgare).

Una possibile risposta al rischio di crisi, o comunque di calo degli spettatori per la televisione tradizionale consiste nella segmentazione e tematizzazione dell’offerta televisiva passando dalla diffusione terrestre alla diffusione satellitare in formato digitale, e dalla televisione pagata dalla pubblicità a quella pagata direttamente dagli utenti. Già oggi nell’offerta commerciale di tutti gestori TV satellitari, sono presenti numerosi canali tematici dedicati ad un vasto spettro di argomenti e generi che vanno dallo sport, ai cartoni animati, dal cinema in bianco e nero alla caccia e pesca; senza dimenticare ovviamente i cosiddetti canali all-news, quei canali cioè che trasmettono informazione sull’arco dell’intera giornata, di cui la ormai famosa CNN è l’esemplare più tipico.

Questa evoluzione del sistema dei media televisivi, comunque non comporterà, almeno a breve termine, la scomparsa dell’offerta generalista. Più verosimilmente assisteremo ad una coesistenza di entrambi i modelli, ed ad una simmetrica segmentazione del pubblico, che sarà sempre più soggetto attivo nella scelta della programmazione a cui vuole assistere. Il passo successivo, almeno a detta di molti esperti, sarà infine la completa personalizzazione della comunicazione televisiva, realizzata grazie alla convergenza digitale ed alla disponibilità di sistemi di video on demand.

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